(English translation below)
Quando sono partita per Salvador, per Ribeira, per l’Icbie, non sapevo assolutamente cosa mi avrebbe aspettato, cosa avrei trovato esattamente. Semplicemente sapevo che ci sarebbe stato da fare e questo non mi spaventava, anzi mi entusiasmava.
Era la prima volta in Brasile, la prima volta fuori dall’Europa. Non parlavo e non capivo una parola di portoghese, e dopo pochi giorni mi sono ritrovata di fronte una ventina di ragazzi che ovviamente (e giustamente direi) non capivano nulla di italiano. Se non ci fosse stata Meg, che faceva da interprete, davvero non avrei saputo da dove cominciare. Lo scopo era realizzare uno spettacolo teatrale, accompagnato dalla musica.
I ragazzi erano parecchi, alcuni più grandi che avevano già partecipato al laboratorio di teatro dell’Icbie, altri, nuovi, più piccoli.
Con Pietro abbiamo scelto un testo di Machado, riadattato in chiave moderna, Roy ha trascritto le musiche per pianoforte che i ragazzi avrebbero cantato e tra una scena e l’altra (il testo era composto di dieci scene), avremmo inserito musiche suonate da me al pianoforte.
Insegno a Roma musica ai ragazzi da diverso tempo, ma qui è stato davvero tutto diverso.
Avevamo stabilito inizialmente solo tre giorni a settimana di prove per lo spettacolo da preparare e allestire in poco più di un mese. Ma poi qualcuno non poteva, qualcuno arrivava in ritardo e via dicendo, così abbiamo pensato di fare prove tutti i giorni (con la prima prova generale anche di domenica). Non ho mai avuto dubbi sulla realizzazione dello spettacolo: ne ero sicura. Vedevo il loro entusiasmo, anche se i loro gesti a volte non rispecchiavano le intenzioni, il loro entusiasmo era autentico. A loro piaceva l’idea, a loro andava, erano contenti. Riuscire a farli anche cantare (alcuni di loro erano spaventati all’idea di dover per forza cantare), e perfino ballare, è stato meraviglioso. Credo che alla fine era impossibile, anche per chi solo ascoltava le prove, non canticchiare “e um, e dois, e tres!”.
Non ci si poteva permettere di fermarsi. A volte sembrava di scontrarsi con la pigrizia, con la mancanza di voglia. E invece, alla fine, che spettacolo! Forse sentivano solo il bisogno di essere spronati un po’ di più.
Ci sono stati dei momenti faticosi, dei momenti in cui le energie venivano meno, ma poi passavano e ricominciava la voglia di poter lavorare con loro, con Pietro, con Meg. Siamo riusciti a metter su uno spettacolo e coinvolgere persone esterne, siamo riusciti a fare ben tre rappresentazioni del “Dragao Preto” (con sabato pienone finale, addirittura posti in piedi!). Alcune scuole di Ribeira hanno anche chiesto di rifarlo per loro. E’ davvero molto bello tutto questo.
Quello che più mi ha colpito di questa esperienza con i ragazzi sono stati proprio loro. Non ho mai provato un senso cos’ alto di soddisfazione e allo stesso tempo di vuoto una volta finiti i tre giorni. Con i loro ritardi, con la loro confusione, con la loro imprevedibilità, sono stati capaci tutti loro di riempire una vacanza intera, riempire i pensieri e le giornate.
Hanno una vitalità di cui forse non si rendono neanche bene conto, un creatività, una morbidezza incredibile, sono liberi all’intero dello spazio in cui si muovono, questo forse perché sono ragazzi, ma forse ancor più perché sono brasiliani. Quando mi sono resa conto che tutto questo era finito, mi sono sentita svuotata. E ora come avrei fatto senza i rimproveri a Juliana che parlava sempre, le canzoni di Felipe, i ritardi quasi al limite di Suedi, gli sbalzi d’umore di Josemar e tante tante altre cose ancora? Aver avuto la possibilità di poter lavorare con loro, è stato davvero qualcosa di meraviglioso.
E la parola meraviglia va anche per tutto quello che è stato l’Icbie. Tutti loro, Marcella, Meg, Ivanildo, Pietro, Marlene e tutti gli altri, hanno fatto si che l’icbie, per quei 43 giorni è stato casa. Senza di loro, l’Icbie non sarebbe Icbie.
C’è chi ha detto:”Mi sento a casa ogni volta che faccio musica”; c’è chi ha affermato come l’idea di casa possa essere associata a un’idea di transizione, di fludità: non c’è un luogo fisso, ma correnti e flussi, e d’altronde, sotto questo punto di vista, anche la musica è transizione. Ed è anche vero che ci si sente a casa quando ci si lascia andare, quando le cose si possono cambiare, quando non si è costretti ad arrendersi agli eventi che scorrono in un determinato modo. Bene, io mi sono sentita a casa. C’era la musica, c’era il pianoforte, c’era la transizione, la fluidità, c’è stata la possibilità di progettare e poi di realizzare veramente un progetto. Ci sentiamo a casa quando siamo in compagnia di persone con cui siamo perfettamente a nostro agio, e questo senza tutti i personaggi incontrati lì non sarebbe stato possibile.
Il lasciarli è stato davvero triste. E’ stato un viaggio incredibile, e l’unica cosa che riesco a provare ora, pensando a Ribeira e all’Icbie, è la voglia di tornare!
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When I left for Salvador, for Ribeira, for the ICBIE, I had absolutely no idea what I was getting in to, or exactly what I would find there. I simply knew that there would be plenty to do and that didn’t frighten me, instead, it filled me with enthusiasm.
It was my first time in Brazil, the first time outside of Europe. I didn’t speak and didn’t understand a word of Portuguese, and within a few days, there I was in front of twenty kids who obviously (and rightfully, I’d say) didn’t understand any Italian. If it weren’t for Meg, who acted as interpreter, I really wouldn’t have known how to begin. The idea was to put on a theater play, accompanied by music.
There were quite a few kids, some of the bigger ones had already participated in the ICBIE theater laboratory, while other smaller ones were new.
Pietro and I chose a story by Machado, re-adapted and updated; Roy transcribed the music for pianoforte that the kids were to sing and between the scenes (the script comprised ten scenes), we would insert music played by me on the piano.
In Rome I’ve taught music to kids for quite awhile, but here it was truly all different.
At the start, we decided to hold three practices a week for the show, giving us a little more than a month to prepare and to set up everything. After a bit, because some kids couldn’t come or they arrived late, we decided to rehearse every day (with the dress rehearsal on a Sunday, no less). I never had any doubts about the realization of the performance: I was sure. I saw their enthusiasm, even though their actions didn’t always mirror their intentions, their enthusiasm was authentic. They liked the idea, they were eager and they were happy. To succeed in making them sing (some of them were frightened at the thought of having to sing), and even to dance, was wonderful. I knew that, in the end, it was impossible, even for those who just happened to hear the rehearsals, not to end up singing “e um, e dois, e tres!”.
We couldn’t let them rest. At times it seemed like bashing against laziness, with a lack of desire. Instead, finally, what a show! Maybe they only needed to be pushed a bit harder.
There were some tiring moments, times when all energy was exhausted, but they passed and the will to work with Pietro and with Meg returned. We managed to put on the show and draw in outside people, we managed to put on three performances of the “Dragao Preto” (with Saturday’s full house, with people standing!). A few schools in Ribeira requested that we repeat performances for them. All of this was really beautiful.
What sturck me most about this experience was the kids themselves. After those three shows, I had never felt such a feeling of satisfaction, but at the same time, an emptiness. With their being late, their confusion, their unpredictability, they managed to fill up an entire vacation, occupy my thoughts and my days.
They have a vitality that perhaps they don’t even realize that they have, a creativity, an incredible gentleness, they are free within their world, maybe because they’re kids, but more because they’re Brazilians. When I realized that all this had come to an end, I felt drained out. Now what would I do without scolding Juliana who talked all the time, Felipe’s songs, the chronic tardiness of Suedi, Josemar’s changes of mood and so many other things? Having had the chance to work with them, that was as something really marvelous.
And the word marvelous is a good fit to describe everything that the ICBIE was. All the people, Marcella, Meg, Ivanildo, Pietro, Marlene and all the others have made the ICBIE, for all 43 days, my home. Without them, the ICBIE wouldn’t be the ICBIE.
Someone said, “I feel at home every time I make music”; that someone stated how the idea of home can be associated with an idea of transition, of fluidity: it’s not a fixed place, but currents and flux, and from this point of view, music is transition, too. And it’s true that you feel at home when you can let go, when things can change, when you’re not forced to surrender to events, when they go in a set way. Fine, I felt at home. There was music, there was a piano, there was transition, fluidity, there was the chance to plan and then to truly realize a project. We feel at home when we’re accompanied by people that we are perfectly comfortable with, and without all these people, it wouldn’t have been possible.
Leaving them was really sad. It was an incredible trip, and the only thing I feel now, thinking of Ribiera and the ICBIE, is the desire to return!